Un album degli Iron Maiden che esce costituisce sempre uno dei momenti più ricchi di attesa e riflessione per tutto il panorama Heavy Metal, un momento catalizzante che forse solo un nuovo album dei colleghi Metallica riuscirebbe ad eguagliare.
Con il susseguirsi degli ascolti, imprescindibili e immancabili, arriveranno i consueti dibattici incentrati spesso solo su un mero confronto con quello che la band di Steve Harris e soci attraverso la loro musica rappresentavano 30 anni fa.
Gli Iron Maiden per il sottoscritto arrivano a questo Senjutsu dopo un paio album che per un motivo o per l’altro non avevano convinto appieno (The Final Frontier del 2010 e The Book of Souls del 2015) ma diciamolo subito: Questo nuovo album viaggia uno spanna sopra i due lavori precedenti.
Pur avendo dei limiti sia ben chiaro, limiti che l’avrebbero reso un album tra i migliori della post-reunion.
Ma tuffiamoci dentro Senjutsu.
L’album è la diciassettesima prova discografia in studio dei Maiden e l’artwork (ispiratissimo e tra le migliori cover recenti della band) ci trasporta in Giappone con un inedito Eddie samurai che prova a incuterci terrore dalla copertina.
Registrato come il precedente Book of Souls al Guillaume Tell Studios di Parigi, Senjutsu viene registrato per tutto il 2019 e rappresenta al momento (dietro proprio il precedente lavoro) l’album più lungo della storia della Vergine di Ferro con ben 82 minuti di musica.
E questo dato numerico ci spinge subito di fronte alla prima considerazione.
L’album con una limata ben assestata su molti pezzi avrebbe reso molto meglio. E non parlo della presenza di filler, ogni pezzo ha il suo perché e la sua collocazione all’interno dell’album, ma di una vera e propria scrematura all’interno di vari pezzi.
L’avvio è riservato alla titletrack, cosa che non avveniva dal 1986 con Caught Somewhere in Time (su Somewhere in Time).
Pezzo quasi teatrale nell’interpretazione iniziale di Bruce Dickinson fino ad aprirsi ad un ritornello arioso e melodico.
Il pezzo viaggia su una ritmica atipica, molto lenta rispetto a quello che ci aspetta da un pezzo di apertura dei Maiden, con i tamburi di Nicko McBrain in bella evidenza.
Si passa a “Stratego”, il secondo singolo utilizzato in pre-promozione.
Pezzo di mestiere in pieno stile Maiden, una cavalcata di basso sulla quale Bruce si esalta fino ad un ritornello di grande presa che dal vivo darà grande soddisfazione alle platee.
The “Writing On The Wall” porta la firma di Adrian Smith e Dickinson ed è il primo pezzo che abbiamo avuto modo di ascoltare in anteprima. Giocato su un buon sviluppo vocale e su belle melodie di chitarra che sanno a tratti riportarci indietro nel tempo.
Arriva il primo pezzo scritto in solitario da Harris: “Lost in a Lost Word”.
Brano di quasi 10 minuti che porta in dote le consuete strutture dei brani lunghi alla Maiden con cambi di tempo ed interessanti melodie di chitarra.
Le mani di Smith e Dickinson si incrociano nuovamente su “Days Of Future Past”, uno dei pezzi più convincenti dell’album e dalla certa resa live. Pezzo a detta di Bruce ispirato al film Costantine con Keanu Reeves.
“The Time Machine” porta la firma della prolifica coppia Gers/Harris e parte con un delicato arpeggio di chitarra sul quale si poggia armoniosa la voce di Bruce.
Il pezzo apre disegnando discrete melodie su un tempo sincopato fino ad arrivare ad arioso ritornello. Numerosi cambi di tempo e soli fanno arrivare il pezzo a sette minuti.
La seconda parte dell’album si apre con l’introspettiva “Darkest Hour” a firma Smith/Dickinson.
Arriva dunque un trittico di pezzi scritti in solitaria da Harris: “Death Of The Celts” che come il titolo suggerisce ci lascia respirare atmosfere celtiche in innumerevoli riffs e melodie, “The Parchment” e “Hell On Heart”.
Quest'ultimo è un pezzo sicuramente convincente che chiude l’album prima adagiandoci nelle atmosfere che il buon Steve Harris sa preparare per noi, per poi liberarsi galoppante e melodico.
Tre pezzi per 35 minuti di musica. Un trittico che rende a mio parere l'ascolto finale parecchio appesantito.
A parte la conclusiva “Hell On Heart” che gode effettivamente di una marcia in più, i primi due brani del trittico finale, con i colpi di forbice di cui parlavamo prima avrebbero reso tutto più facile.
Senjutsu è album complesso, ricco di varie sfaccettature, ben suonato ma che proprio per quanto detto necessita di più di un ascolto per essere apprezzato appieno. Per quanto mi riguarda un deciso e apprezzabile passo in avanti rispetto alle ultime due prove.
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