È primavera inoltrata, l'Italia aspetta con trepidazione i Mondiali di Calcio in Messico sperando in uno storico bis, perché la Nazionale Azzurra si presenta per la prima volta dopo più di quarant'anni da Campione del Mondo in carica. Una primavera sonnecchiante, quella dell'86, proprio per quella sensazione di attesa, come se tutto ciò che accadeva intorno fosse solo un rito preparatorio, una specie di grande bolla sospesa nello spazio e nel tempo.
Ma sono gli anni '80 nel pieno del loro splendore, economico, politico, sociale. Milano è già da tempo diventata un digestivo, metafora neanche troppo velata dello yuppismo imperante. Improbabili spalline, capelli cotonati, giubbotti costosissimi e scarpe da montanari diventano "look" per i giovani "paninari", ragazzi di quel tempo, disimpegnati ed edonisti, più avvezzi all'ostentazione che alla ricerca di identità. Il "Dio Denaro" è la nuova religione, il "Successo" il nuovo imperativo sociale. È l'America di Reagan il paradiso artificiale da guardare con ammirazione, la Terra Promessa, il modello cui ispirarsi. Ed è l'Inghilterra tatcheriana, con le sue allusioni al benessere diffuso a fare da contraltare europeo. In questo scenario a metà tra il grottesco e il trionfalistico, ritorna in auge un brano del 1977, "We are the Champions" dei Queen, che sembra fatto apposta per celebrare l'epica del vincente. Ma ancora l'inno vero di quel momento storico doveva arrivare. Succede il 26 maggio del 1986, dagli schermi dell'immancabile DEEJAY TELEVISION, la trasmissione musicale più in voga in quegli anni.
Non sono americani e nemmeno inglesi, sono tutto tranne che cool, anzi, i paninari dell'epoca li avrebbero definiti "tamarri", sono di estrazione hard rock, genere musicale detestato dal mainstream, sono l'esatto opposto di quel modello incarnato dai vari Bros, Nick Kamen, Madonna, in cui è il glam il protagonista assoluto. Gli Europe sono svedesi, sono trucidi, vestiti da metallari, i capelli lunghissimi, i peli sul petto, le chitarre brandite come i vecchi rockabilly. E poi il frontman, al secolo Rolf Magnus Joakim Larsson, nome decisamente poco rock, opportunamente cambiato in Joey Tempest.
Si spengono le note dell'ultimo ballabile del momento e tocca a Gerry Scotti, ancora nei panni di DJ, presentare il brano al pubblico di Italia 1.
L'attacco è già un manifesto: una fanfara militare che più epica non si può, in realtà un riff di tastiera in pieno stile Eighties, che ha però il pregio di lasciarti incollato allo schermo per capire "dove vogliono andare a parare questi?".
Irrompe "viso d'angelo" Joey Tempest, truccato da New York Dolls (l'altra faccia del glam, quella più irridente), il videoclip è un finto "live" preparato ad arte con tanto di urla del pubblico. La faccenda si complica.
Li senti tutti gli anni '80 in quel modo di cantare, in quell'incedere ballabile nonostante il vestito hard rock, eppure c'è qualcosa che cattura al di là dell'estetica. Solo con il senno di poi è possibile spiegarlo: "The Final Countdown" è la fotografia esatta di quel momento storico. È la "We are the Champions" di dieci anni dopo, perfetta per incorniciare un periodo in cui tutti aspettavano il loro momento di gloria. Ai mondiali di calcio, sul posto di lavoro, nelle sfide a briscola e tressette, ovunque ci fosse da sgomitare, prevalere, vincere. Ecco il conto alla rovescia, i secondi che ti separano dal trionfo, quello tenacemente cercato da un'intera generazione sotto forma di gratificazione economica, potere, popolarità... in una parola, successo.
E poco importa se nel frattempo la musica stava dispiegando il suo potenziale socioattrattivo per disinnescare il falso mito del potere economico, per tentare un ritorno ai valori fondanti dell'essere umano. Niente da fare, le ombre degli Smiths, gli oscuri presagi dei Cure, il nuovo pacifismo di U2 e Dire Straits, le invettive antiamericane del Boss, nulla possono contro "The Final Countdown", il nuovo inno generazionale, la celebrazione del nulla diventato improvvisamente sostanza.
E vai a spiegare che il testo è in realtà un'ispirazione diretta al David Bowie di "Space Oddity", a sua volta rielaborazione musicale di "2001 Odissea nello Spazio", il film di Stanley Kubrick che più di tutti si è interrogato sulle reali conseguenze del progresso tecnologico, della ricerca spasmodica di affermazione, del tentativo di dominare il mondo, che sembrano essere i presupposti fondanti del decennio.
E vai a raccontare che non basta un assolo alla Van Halen per classificare il brano come "hard rock", perché la storia che nel frattempo stavano raccontando gli Iron Maiden, i Metallica, i Black Sabbath, era completamente diversa e decisamente meno trionfalistica.
Nulla da fare.
L'inno è servito.
È un delirio collettivo che porta gli Europe ai vertici di tutte le classifiche esistenti, tonnellate di dischi venduti, milioni di fan adoranti in tutto il mondo.
Solo che poi l'Italia di Bearzot esce malamente dai mondiali, mandata a casa da Platini, il "traditore francese". Maradona fa fuori gli inglesi con due gol leggendari, uno di mano (la Mano de Dios) e l'altro di piede (il Piede de Dios, a questo punto), rimettendo a posto la storia delle Malvinas con un paio di magie. La tatcheriana. Albione rimette nel cassetto i sogni di gloria, vince il proletariato del Boca in una vendetta che ha un significato molto al di sopra di quello sportivo.
Il trionfo ha un sapore diverso, sa di sudore, di favelas, di sangue e libertà. Sa di leggenda, non di effimero.
Maradona si ripeterà a Napoli, la capitale dell'antiyuppismo, la nemesi della Milano da Bere.
Gli Europe, invece, non si ripeteranno. La loro incursione nel mainstream si ferma lì, in quella tarda primavera del 1986, quando il mondo non aspettava altro che la loro canzone per incorniciare il decennio più controverso del dopoguerra.
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