Non sopporto chi confonde la nostalgia con il "passatismo". Confesso che non tornerei volentieri indietro rinunciando al progresso tecnologico, a internet, ai telefonini. Non lo farei per due ordini di motivi: il primo è che tanto non si può, il secondo è che il passato è una terra straniera (per dirla con Carofiglio) in cui è facile far cadere dal setaccio tutto il brutto per lasciare in superficie le pepite più luccicanti.
Nel posto in cui sono nato e ho vissuto per gran parte dell'adolescenza, a quel tempo la gente si ammazzava per strada. Era in corso una sanguinosa guerra di mafia con centinaia di morti e quasi tutti i giorni ci imbattevamo in cadaveri con la striscia di gesso disegnata intorno e rivoli di sangue denso che si allargava sull'asfalto. Non è una bella immagine, vero? Eppure tutto questo, nei nostri ricordi d'adolescenza, è stato rimosso in favore della nostalgia per quelle serate estive, quei falò sulla spiaggia, le prime pulsioni, i primi amori.
La mia "fidanzatina" si chiamava Nadia, frequentavamo entrambi il Liceo Scientifico. Vederla oltre l'orario di scuola era un'avventura da poema epico, sentirla al telefono lontano da orecchie indiscrete, una sorta di prova di coraggio. Il telefono di casa era, manco a dirlo, sotto stretta osservazione dei genitori, così per fare quella benedetta telefonata ti toccava uscire con qualunque condizione meteorologica (non chiedetemi perché, ma il cielo un attimo prima terso e luminoso, minacciava tempesta appena mettevi il becco fuori casa) inforcare la sella della moto e partire (senza casco, per non confonderci con i killer) alla ricerca di una cabina telefonica.
Una volta trovata, ti servivano altre due cose: un gran fegato e un gettone.
Il gettone, in genere, lo trovavi al bar al costo di duecento lire (dieci centesimi di euro attuali).
Il fegato, invece, non era così a buon mercato e quindi o ne avevi abbastanza di tuo o ti toccava chiedere l'aiuto di un complice (meglio ancora "una" complice), che componeva il numero al posto tuo e si sciroppava la temuta voce dei genitori di lei (quella della madre era tollerabile, il padre uno spauracchio da film horror) per poi finalmente passartela quando i suoi si convincevano che si trattava di una telefonata innocua. A quel punto agguantavi la cornetta mentre scalciavi il complice che aveva la pretesa di ascoltare la telefonata, come minimo indennizzo per il suo fondamentale contributo. Pronunciavi parole dolcissime alle quali lei rispondeva con stentati monosillabi, ma tu lo sapevi che non poteva fare altrimenti perché in agguato c'erano sempre loro, i genitori. Le parole che avrebbe detto se fosse stata libera di esprimersi dovevi immaginartele, intuirle dal tono del monosillabo, dalla leggera inclinazione di un sorriso appena percettibile dalla voce, ma era bello così, faceva parte di quel gioco in cui la fantasia assume un ruolo fondamentale, quella stessa fantasia che ci ha formati e ci ha fatti diventare, nel bene e nel male, quello che siamo.
È in questo esatto momento che arriva quel languore sottopelle che siamo soliti chiamare nostalgia, il ricordo che prende la forma di un gettone telefonico e ti proietta nell'istante in cui tutto esisteva solo perché esisteva lei: la fantasia. Gli amori più immaginati che vissuti, le avventure più sognate che realizzate, la stessa vita che si svolgeva come in un film al rallentatore in cui tutto deve ancora accadere e l'immaginazione prende il sopravvento sulla realtà.
Una realtà spesso complicata più del giusto, specialmente quando si trattava di rapporti sentimentali.
Quei rari, fatidici momenti, in cui ci si incontrava erano mediati dal circostante, serviva una scusa, spesso la festa di compleanno di un compagno di classe durante la quale attendevi solo il momento dei lenti (eh già, all'epoca si ballavano i "lenti"), il pretesto per abbracciarla, per sussurrarle parole che non potevi dirle in altre occasioni e magari, approfittando della semioscurità (sagacemente, durante i lenti, qualcuno abbassava le luci) scambiarsi anche un bacio fugace.
I miei quattordici anni sono stati questo: l'attesa dei lenti e un gettone in tasca. Tutto il resto lo ha fatto la fantasia. La benedetta, meravigliosa, struggente fantasia.
E la nostalgia si fa strada solo pensando a quanto oggi sia tutto così poco attraversato dall'immaginazione. Perfino questo scritto diventerà già vecchio nel momento in cui verrà pubblicato, perché tutto scorre rapidamente e l'attesa non esiste più. La generazione precedente alla mia ascoltava i Rolling Stones che dichiaravano "You can't always get what you want" (non puoi avere sempre ciò che vuoi), la successiva alla mia ascoltava i Queen che cantavano "I want it all and i want it now" (voglio tutto e lo voglio subito). In mezzo ci siamo stati noi, che non sapevamo nemmeno cosa volevamo davvero, ma sapevamo che qualunque cosa fosse potevamo sognarla. E lo abbiamo fatto, giuro. Lo abbiamo fatto eccome. Abbiamo sognato più di chiunque altro, più di quelli dell'utopia collettiva degli anni '60 che in fondo avevano il loro sogno già bello e confezionato dalla pulsione politica. Più di quelli della decadenza dell'edonismo negli anni '90, che sognavano per frustrazione, per delusione, per rabbia. Noi sognavamo perché ci sentivamo liberi di farlo, perché ci sembrava giusto così, perché non costava nulla e soprattutto perché ci sembrava possibile, un giorno, realizzarlo davvero quel benedetto sogno.
Ci siamo riusciti? Forse no. Forse non consegneremo ai nostri figli un mondo migliore di quello che abbiamo vissuto noi, ma d'altra parte cosa potevate aspettarvi da una generazione che ha aspettato sempre? Ha aspettato i lenti, ha aspettato una telefonata, ha aspettato la festa di compleanno di un compagno di classe, ha aspettato l'estate, ha aspettato il futuro. E nell'attesa ha sognato. E i sogni, si sa, sono impalpabili, non hanno fondamenta e se ne hanno non sono sogni, semmai speranze, casomai aspettative. Ecco, anche di quelle ne abbiamo valigie piene, ma non le abbiamo mai aperte, sono sempre lì, dietro l'armadio, ad aspettare anche loro insieme a noi. Arriva sempre il momento in cui ti viene voglia di prenderle e buttarle via definitivamente, solo che a me capita di pensare a Nadia, a quella cabina telefonica, a "Reality", la colonna sonora de "Il tempo delle mele" che a quel tempo era il "lento dei lenti", quello che evocava più di tutti l'amore adolescenziale. E allora le lascio ancora lì, sperando che un giorno come questo, mentre fuori piove, si ricordino di me e mi regalino un altro po' di nostalgia.
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