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“El tigre”, un brasiliano troppo poco tedesco: il re del calcio che solo la musica non tradì mai…


Essere tutto e non bastare, e non bastarsi. Voler essere un po' meno, ma il contrario di quel tutto, ma vivere questo “altro da sé” come una condanna.

Dolce. dolcissima, se l’alternativa sono le ballerine mulatte, i locali notturni, il calypso da danzare con il sigaro tra le labbra.

E, forse, quel ritmo, quello del calypso, col suo modulare ripetitivo, quasi ossessivo, nato come metodo di comunicazione tra gli schiavi delle piantagioni, gli è rimasto dentro, dalla nascita.

Lui è nero – tecnicamente sangue misto, ma nei fatti più nero che mulatto – e porta un cognome che tradisce geni nibelunghi: Friedenreich (che si dice di persona “tranquilla”, e già qua le contraddizioni si prendono la scena). D’altra parte suo padre - un commerciante tedesco che sul finire dell’800 è andato a caccia di fortuna a Sao Paulo do Brazil – gli ha lasciato in eredità il fisico, il colore degli occhi, i tratti mitteleuropei, ma della mamma, una lavandaia brasiliana di colore, Arthur, quando vede la luce, nel 1892, si porta appresso i capelli crespi e, appunto, gran parte del colore della pelle.


Ma lui, Arthur, non vuole essere nero e non è certo un vezzo che radicalizza questa sua convinzione. I primi anni del ‘900 ci consegnano un Brasile ancora molto coloniale, il samba sta per muovere i primi passi e, come detto, è il calypso a dettare ritmi e illusioni, dolore e disincanto.

In parole povere (anche queste…) i bianchi sono protetti, i poveri discriminati ed emarginati. Da tutto. Football compreso. D’altra parte il calcio è sbarcato sulle coste del Brasile appena 30 anni prima, portato da quella borghesia europea che non ama che si mescolino razze e colori.

Intanto, però, lui, Arthur, in campo ci va – nel tempo lasciato libero da musica e ballerine – e lo fa da centravanti.

Segna valanghe di gol, è incontenibile da subito, dal 1910, quando a 18 anni nella squadra della comunità tedesca è visto come un dio.



Nessuno ha mai toccato il pallone in quel modo, nessuno ha mai fatto quelle giocate.

Eh si, perché, nemmeno lui – probabilmente – ancora lo ha compreso, ma dalla mamma ha preso anche le movenze tipiche dei neri: flessuose, a tratti sinuose, continuamente imprevedibili e questa è un’arma sempre vincente con il calcio solo “dritto per dritto” di tedeschi e inglesi.

Di lui, molti anni dopo, uno degli scrittori più grandi di tutti, Eduardo Galeano, avrebbe detto: “Da Friedenreich in poi il calcio brasiliano non avrà più angoli retti”.

A forza di gol Arthur fa dimenticare a tutti il colore della pelle (per occultare il quale, da ragazzino, capitava anche che si mettesse su della cipria…).

E’ sua la firma sul gol che porta in Brasile il primo trofeo internazionale, la Copa America, contro l’Uruguay di un altro mito: Jose Piendibene Ferrari.

A Parigi segna tre gol con la Nazionale e i francesi lo battezzano “il re del calcio”, mentre ormai lui è per tutti “El Tigre”.

“El Tigre” in campo e anche “El Tigre” nei locali notturni, a passo di danza, con i capelli crespi domati dalla brillantina, alla moda di Rodolfo Valentino, con le cravatte di marca fatte arrivare per lui dall’Europa e i modi un po' snob da ricco signore dalla pelle scura.


Ma, nel copione della contraddizione, agli anni di esaltazione piena segue un incubo che ritorna, quello del colore della pelle che – a seconda delle evoluzioni governative (tipiche di un Paese mai stabile) – lo fanno tornare a essere – incredibilmente, ora che “El Tigre” è acclamato in tutto il mondo – un emarginato.

Prima tocca a una disposizione che vuole in Nazionale solo i calciatori “carioca” e non quelli “paulisti”; dopo un po' la posizione del Presidente del Paese, Pessoa, si ammorbidisce, i “paulisti” sono accettati ma solo quelli dalla pelle bianca.



Lui ormai ha capito che la sua vita, il suo destino sono disegnati da un architetto evidentemente ubriaco e beffardo e così continua a segnare valanghe di gol nelle squadre di club, a immergersi ogni giorno nella “sua” musica (che poi lui stesso dichiarerà avere avuto un effetto salvifico sulla sua salute mentale…) tra sigari, cravatte e bellissime donne.

Però la Nazionale, solo assaggiata, resta un miraggio, beffardo fino alla fine quando, nel 1930 lui, “El Tigre”, ormai un re stanco a 38 anni, vorrebbe togliersi la soddisfazione di partecipare ai Mondiali in Uruguay, i primi della storia.

Il colore della pelle pare non essere più un problema, ma stavolta tocca alla Federazione brasiliana decidere di portare a Montevideo solo calciatori “carioca”.

E lui è un mulatto paulista; uno che avrebbe segnato, alla fine 1239 reti (solo Pelè avrebbe fatto meglio) facendo impazzire milioni di tifosi ma vestendo la casacca della Nazionale la miseria di 17 volte in tutto.


Morirà da ricco signore (lui che era cresciuto in strada), senza avere abbandonato la musica che nel frattempo è diventata anche jazz, rock, bossa nova.

Se ne andrà pochi mesi prima che Pelè venga celebrato per il suo millesimo gol, nel 1969, ma pochi sanno che lui, Arthur Friedenreich, “El Tigre”, colui il quale si incipriava e riempiva di brillantina per essere un po' più europeo, il “re del calcio” ci era arrivato prima di “O rey”

Ma lui era troppo brasiliano per essere un tedesco, quando invece, serviva essere un po' più chiari e, magari, “carioca”.

Ma lui è solo un mulatto paulista.

Fino alla fine, col suo cognac, i suoi sigari e la sua musica, l’unica che non lo tradì mai…

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