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7.7.2022-Radiohead: l’anima e il crepuscolo del rock (seconda parte)

Arrivò il 2003, mentre portavo avanti qualche storia a distanza, mentre faticosamente cercavo di stabilizzare il lavoro fra co.co.co, co.co.pro. e roba varia. E poi c’era un percorso di analisi personale.

Nel mezzo di tutto questo uscì Hail to the Thief, dove i Radiohead sembravano abbandonare il senso di frustrazione e distacco dal mondo, per orientarsi verso un’ottica più “combattiva”. Il punto di vista individuale e critico si allargava e coinvolgeva, non solo il mondo tecnologizzato, come era stato per i due precedenti lavori, ma anche la società.

I riferimenti politici nell’album non sono mai palesi, ma risultano comunque visibili. Già il titolo, traducibile come “Ode al ladro”, è una ripresa della frase che i contestatori gridavano per le strade d’America, contro l’insediamento di Bush jr. alla Casa Bianca: “Hail to the thief, our commander in chief”.

“Ode al ladro, nostro comandante in capo”.

I libri e la musica mi facevano compagnia durante i viaggi da pendolare Pescia-Firenze e viceversa.

Tornavo con uno scalcagnato regionale delle 21 e 19 sopportando di buon grado i vari ritardi delle allora Ferrovie dello Stato. Arrivavo a casa in orari improbabili, ma in compenso avevo tutto il tempo per leggere e ascoltare.

L’impressione che ebbi allora e che poi mi venne confermata da vari articoli, fu quella che il gruppo di Oxford, ritornasse con questo album, all’ “essenza”, mantenendo sì l’elemento tecnologico, ma reinserendolo in una poetica personale e soggettiva, quella che fra l’altro, sentivo più vicina alla mie corde.

La tecnologia in Hail to the thief, come più ancora nel successivo In rainbows, diviene strumentale al messaggio, rendendolo più efficace. Da questo album in poi “è la voce dell’individuo a riconquistare la priorità” (Marino, Gozzi: La filosofia dei Radiohead).

Nell’album ogni canzone è accompagnata da un sottotitolo, che allude ai contenuti a cui il brano si richiama.

I pezzi si dice siano nati da suggestioni personali di Yorke, durante le sue peregrinazioni al tramonto.

E qui capisco perché l’incontro con una qualsiasi forma d’arte, è da considerarsi come qualcosa di destinale e non un contenuto che si acquisisce esternamente. C’è un elemento che giace all’interno di te e che quel pezzo, quel libro, quel film fanno emergere, portandolo a coscienza. Questo processo ti rende più ricco e meno confuso di quanto tu fossi in precedenza.

Ho sempre amato muovermi da solo al crepuscolo in direzione di un orizzonte indefinito, per accogliere e far sedimentare i pensieri.

The Gloaming (Il crepuscolo) (Softly open our mouth in the cold), pezzo centrale e centro di gravità dell’album, ci immette nel contesto dell’attesa, quello stato d’animo che comprende nel medesimo tempo inquietudine e speranza. Il pezzo ha una base elettronica e il testo come al solito, è piuttosto oscuro, tendente più al sogno che alla realtà: poche frasi ripetute molte volte.

L’atmosfera crepuscolare richiama sogni e visioni: “Adesso è l’ora delle streghe/ Assassini, siete degli assassini/ Noi non siamo come voi.”


Qui riecheggia l’entrata in scena delle streghe del Macbeth:

-Tuoni e lampi. Entrano le streghe

Tutte le streghe: “Brutto è il bello e bello è il brutto,

su, per la nebbia e l’aria unta”.-

(Macbeth, Atto I, Scena I).


2+2=5 (The Lukewarm) (sottotitolo traducibile con l’ignavo) è invece uno scatto di energia giocato sullo scarto tra le strofe e il ritornello. Le prime hanno un andamento flemmatico, il secondo divampa col distorcersi delle chitarre. È una canzone “dantesca” che cerca di svegliare i tiepidi, gli ignavi, appunto: “Non hai mai fatto attenzione/Non hai mai fatto attenzione”, recita il verso centrale. C’è una presenza simultanea di strumenti analogici e tecnologici che ha la funzione di far emergere il mood specifico del pezzo.


Fra l’altro il 2+2=5 è una locuzione usata in filosofia che viene citata a proposito di una teoria o una posizione che nega qualcosa di evidente ed inconfutabile.

Orwell in 1984 scrive: “La libertà è libertà di dire che 2+2=4. Concessa questa libertà ne conseguono tutte le altre” e poi continua “se il partito dicesse che 2+2=5 e prima o poi lo farà, dovremo crederlo”, affermando l’equivalenza tra il pensiero totalitario e la proposizione logica sbagliata.

Secondo i Radiohead, a volte così eterei, non deve passare l’idea che dentro il mondo post-moderno, non esista più una realtà; perché la realtà c’è e permane oltre tutte le possibili “Matrix”. E proprio per questo, non è concesso non assumersi delle responsabilità personali.

Chiudo Hail to the Thief con Sail to the moon (traducibile in Naviga verso la luna) (Brush the cowbebs out of the sky).

È dedicata da Yorke al primo figlio Noah. È un brano che ha dei legami con Pyramid song. L’atmosfera astrale è scandita da una metrica elaborata: è una jazz ballad suonata quasi interamente al pianoforte. Yorke considera questo pezzo una dichiarazione d’amore e di speranza rivolta a Noah, considerato un nuovo Noè con la sua Arca.


Mentre la ascoltavo, ancora non sapevo che già cominciavo a creare in me l’immagine di un figlio, che sarebbe diventata “carne” sei anni dopo questo album.

Io e mia moglie, il 1° di Gennaio del 2009 daremo a quel bambino un altro nome biblico: Giosuè, confermando il fatto che nella vita il caso non esiste.



Gli anni che vanno dal 2003 al 2006, furono anni di faticose stabilizzazioni personali e lavorative. Nel 2005 mi trasferii a Scandicci, (complice un contratto part-time ma finalmente a tempo indeterminato), in una grande casa vuota, con un affitto altamente favorevole.

Lavoravo, gestivo la quotidianità, continuavo l’analisi personale.

Mi sentivo ancora un equilibrista inesperto, sospeso su di un filo sottile.

Ma c’era da giocare e giocavo.

Una storia abbastanza seria, un po' di musica, molti libri, qualche viaggio nostalgico a Venezia, qualche aperitivo da solo la sera, qualche altro in compagnia, progetti nelle scuole per arrotondare lo stipendio: alle soglie del 2006, ero un equilibrista che aveva quasi conquistato il suo baricentro.

Ma una passione mi esplose tra le mani: quella passione sarebbe diventata mia moglie.

Il 24 Giugno del 2007, dopo poco meno di un anno di convivenza, ci sposammo. Avevo quasi 35 anni, li avrei compiuti il 22 Ottobre; dodici giorni prima usciva In Rainbows settimo album in studio dei Radiohead.

La mia vita cominciava ad avere un senso completamente diverso da quello che aveva sempre avuto, e c’era bisogno di una nuova gerarchizzazione dei sentimenti e dei pensieri.

La passione era fortissima, mia moglie era la donna più bella e interessante che avessi mai incontrato, ma c’erano un affitto da pagare, il lavoro da rendere ancora più stabile e remunerativo, un matrimonio di cui prendersi cura: a volte, mi sentivo sovrastato e nonostante ciò, sentivo anche e nel medesimo tempo, energie nuove e forze ancora inesplorate che premevano per uscire e strutturarsi (tipico sentimento radioheadiano).

Io che avevo sempre considerato la libertà dai legami come il valore assoluto della mia esistenza, mi trovai dentro il legame più forte che avessi mai vissuto.

La musica passò in secondo piano.

Ma non del tutto….

Il mio livello di alfabetizzazione tecnologica del tempo si limitava al possesso di un arcaico Nokia 3120 (il modello l’ho scoperto su Google preparando questo articolo, perché al tempo non avrei saputo indicarlo), il computer lo usavo solo al lavoro e ascoltavo i CD rigorosamente in cuffia con un vecchio lettore.

Dico questo perché il fatto che Jonny Greenwood annunciasse, i primi giorni di Ottobre sul blog ufficiale dei Radiohead, che il nuovo album si sarebbe potuto acquistare l’8 Gennaio 2008 a 40 sterline in versione deluxe , oppure in maniera digitale con un “contributo libero” il 10 Ottobre (cioè di lì a una settimana); mi sembrò si un atto importante e in certo qual modo rivoluzionario, ma non mi scalfì più di tanto.

Ero ancora un uomo novecentesco.

Aspettai la prima settimana del 2008 per avere la tradizionale versione “fisica”, la quale oltretutto conteneva due CD e ben 18 brani.

Ad oggi, non so dove sia finita la mia agognata copia di In rainbows!

Se Hail to the thief era proiettato verso l’esterno, In rainbows si immerge nell’io, un io fragile e problematico. E lo fa attraverso il rock: essenziale, rielaborato, piegato, ferito, ma rock.

La “bandiera” dell’album è la bellissima Reckoner che può essere tradotta con “colui che giudicherà”. I versi più significativi di questo pezzo che è trascendente e quasi mistico, così recitano:

Dedicato a tutti gli esseri umani/Perché ci separiamo/come increspature su una spiaggia vuota/(Negli arcobaleni)/Calcolatore/Portami con te.

È, nel migliore stile della band di Oxford, una ballata “minimal” con un carattere rapido, incalzante, che viene sostenuta da un arpeggio di chitarra, lungo l’intero suo corso. Al centro del pezzo, subentrano degli archi che si sovrappongono alla trama armonica e danno proprio l’idea di onde che si infrangono sulla spiaggia.


All I need, è il pezzo a cui sono più affezionato, anche perché trovo il video di una bellezza devastante. L’argomento è una relazione.

Batteria e basso danno vita ad una melodia molto orecchiabile che, di contro, crea un’atmosfera rarefatta, sulla quale Yorke inerpica uno dei suoi soliti “lamenti”:

Tu sei tutto quello di cui ho bisogno/Sei tutto ciò di cui ho bisogno/Sono in mezzo alla tua foto.


Ascoltavo musica la notte da solo, come fosse uno spazio sacro, dedicato alla sedimentazione e alla comprensione di tutto ciò che che mi stava accadendo.

Ero di nuovo nel pieno di un cambiamento radicale e i Radiohead facevano quello che avevano sempre fatto:

“Mi rompono e mi curano allo stesso tempo” (commento su Youtube al video di All I need).



Fine seconda parte.

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